Avevo già letto sui social, dai commenti dei colleghi e poi degli amici spettatori, che The Whale di Darren Aronofsky aveva un alto potenziale di commozione. Nonostante questo mi sono incaponita e ho voluto mettere il mascara per andare alla proiezione, con conseguenti effetti devastanti. Il mio pianto è iniziato durante il primo tempo ed è proseguito per tutto il secondo tempo. Gli occhi bruciavano, le ciglia erano pesanti e ho fatto di tutto per trattenere il singhiozzo. Quando si inscena una storia di legami famigliari, se il narratore è uno che sa quando toccare le corde dell’emotività, è matematico aprire il rubinetto delle lacrime.
The Whale: la trama
Un solitario insegnante inglese affetto da una grave forma di obesità cerca di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente, con la quale ha perso i contatti, per un’ultima possibilità di redenzione.

The whale è un film catartico
Non è la prima volta che un film di Darren Aronofsky mi fa piangere. Lo aveva fatto con Requiem for a Dream, poi con The wrestler e con Il cigno nero. I personaggi che Aronofsky mette in scena sono estremamente passionali e tutti connotati dall’essere arrivati al capolinea, sono disperati e non hanno molto o nulla da perdere. È inevitabile che in poltrona ci si chieda: e se fossi io ad essere arrivato alla fine? Sopratutto, le storie di questi perdonaggi sono capaci di rievocare momenti di vissuto, piccoli frammenti di rapporti umani, microscopiche schegge di memoria di attimi segnanti che impongono di ripensare all’origine e alla fine di tutto. A parte qualche titolo, la cinematografia di Aronofsky per me è un momento di purificazione, di allontanamento da tossicità provenienti dal superfluo della vita moderna per tornare a focalizzare l’essenza di questa esistenza.
Al centro di The Whale c’è il senso di colpa, proveniente da una storia di abbandono. Si parla anche del rapporto genitori figli, sulle aspettative smentite dei primi e sulle mancanze provate dai secondi. Soprattutto si parla di paura: “avrò fatto del mio meglio in questa esistenza?”. Credo di essere capitolata proprio qui, su questo interrogativo. Sarà che ora sono madre e quando guardo negli occhi mia figlia vedo tutto l’amore del modo e dopo tutto quello che nel mondo non va. Charlie, come tutti i genitori, vorrebbe una conferma, abbandonarsi alla sua dannazione sapendo di aver fatto qualcosa di giusto, qualcosa di buono per lei, qualcosa che le permetterà di avere una esistenza degna anche quando lui non ci sarà più.
Un looser con un aspetto raccapricciante
Il corpo è sempre stato al centro del cinema di Aronofsky, come anche la consapevolezza del fallimento dei suoi personaggi. Il grasso del protagonista di The Whale è solo l’orrore in superficie. Charlie flagella la sua carne per punirsi. Continua a mangiare per nascondere quello che c’è sotto, il dolore, emozione che nemmeno un coltello infilzato nella carne potrebbe arrivare a toccare. Racchiuso nella stazza del protagonista c’è dolore per il fallimento della sua vita, per aver abbandonato a se stessa sua figlia all’età di 8 anni ed averla resa così una persona arrabbiata e incapace di amare, per la perdita del suo compagno vittima di omofobia. Mangiare – che è una delle esigenze primarie di sopravvivenza – diventa la punizione per gli errori commessi nella sua vita.
Narrativa, cinema e teatro: il trionfo dell’arte
Chiaro è il riferimento a Moby Dick di Melville. Charlie è la balena bianca, che nel suo essere libero paga lo scotto per la sua natura. A dagli la caccia è sua figlia, che vuole vendetta per essere stata ferita, come il capitano Achab del romanzo mutilato dalla grande balena. Inutile ripetere quanto sia grande l’interpretazione di Brendan Fraser, uno sguardo che supera i 270 kg del personaggio e che aggiunge valore ad una storia potente. Meritati i premi che ha vinto e vincerà!

Postilla: non sapevo che The Whale fosse l’adattamento dell’omonima pièce teatrale di Samuel D. Hunter, che per Aronofsky ha curato la sceneggiatura del film. Ho pensato però quanto questo dramma fosse di impianto teatrale. La staticità del personaggio principale e l’entrata in scena dalla quinta della sua casa, la porta di ingresso, mi avevano fatto pensare esattamente alla prosa teatrale. Cinema e teatro qui si fondono alla perfezione la scrittura perfetta offre il vassoio d’argento ad Aronofsky che si sofferma sui dettagli più impietosi senza alcuna morbosità. Stupendo!
Se andate al cinema a vedere questo film ci sono solo due cose da sapere: niente mascara e tanti fazzoletti.
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